Moon (2009) – dal libro “Suspense! Il cinema della possibilità”

Stimmung: BECOME THE OTHER

Costellazione: Vertigo, Boys Don’t Cry, eXistenZ, Strangedays
Tropes: Red Herring, Minimalism Cast, Deja Vu
Tipologie di suspense: Ex aequo, Outer, Safety
Acceleratore di suspense: Gerty
Stimmung incrociate: Invisible Enemy/Mousetrap, Drive To Distraction, Conspiracy, Plato’s Cave

moon

L’ignoratio elenchi (conosciuta anche come “conclusione irrilevante”) è un particolare tipo di fallacia logica che consiste nel presentare un argomento di per sé corretto, ma fuori tema rispetto a ciò che originariamente si cercava di dimostrare. Nei paesi anglosassoni, tale fallacia, se utilizzata nel tentativo intenzionale di confondere o depistare qualcuno, è indicata con l’espressione red herring (“aringa rossa”), che deriva dall’usanza di salare e affumicare le aringhe per conservarle più a lungo. Durante le campagne di caccia le aringhe affumicate distraevano i cani dalle tracce della preda, e potevano essere surrettiziamente usate da altri cacciatori per sviare i cani dei concorrenti su false piste.

Moon, clamoroso esordio alla regia di Duncan Jones, rappresenta un caso piuttosto singolare di red herring. Il film si presenta, infatti, come un originalissimo esempio di pastiche postmoderno che riesce a tenere armonicamente insieme situazioni narrative mutuate dalla fantascienza cinematografica di tipo metafisico, come Solaris (1971), Alien (1979) e, soprattutto, 2001: Odissea nello spazio (1968). E lo fa, appunto, con la continua disseminazione di false piste che, utilizzando il bagaglio di codici e soluzioni narrative desunti dai diversi campionari cinematografici ai quali Moon, più o meno esplicitamente, fa riferimento, obbligano lo spettatore ad attingere ad altri mondi diegetici, portandolo a immaginare che gli esiti narrativi a cui giungono gli altri film di volta in volta evocati si verificheranno prima o poi anche in Moon.

Nelle fasi iniziali del film, dopo un cappello introduttivo sulla complicata situazione ambientale del pianeta Terra, che ha ormai esaurito le proprie risorse energetiche, ci viene presentato Sam Bell, giovane operaio spaziale della Lunar, che si trova in una base lunare per supervisionare il lavoro dei macchinari deputati all’estrazione del gas di cui si approvvigiona la Terra; oltre a Sam, giunto al termine dei suoi tre lunghissimi anni di contratto e inevitabilmente vittima della stanchezza e della solitudine, la base è abitata unicamente da un computer tuttofare dalla voce umana e un poco pedante, Gerty (a cui nella versione originale presta la voce Kevin Spacey), sorta di singolare ibrido cibernetico tra HAL 9000 e il robottino Wall-E.

Potremmo dire che, dopo una fase kubrickiana, più seriosa e descrittiva e scandita dalle classiche liturgie della vita nello spazio in solitaria (sport, cura del proprio corpo, botanica, alimentazione liofilizzata, videocomunicazioni con i propri cari) e dal rapporto con il robot umanista Gerty, si entra in una fase tarkoskiana, più metafisica e atmosferica che apre al primo turning point e cioè alle visioni sinistre e inquietanti che cominciano a manifestarsi al protagonista e che ci vengono presentate come una specie di rimosso fantasmatico che sta tornando lentamente a galla (che possiamo presumere essere legato a qualcosa che ancora non ci è stato detto). Si passa poi a una dimensione più propriamente alla Alien, dove sembra che un nemico invisibile sia entrato nell’astronave che quindi potrebbe progressivamente trasformarsi in un’inesorabile mousetrap, per poi tornare alla dinamica 2001 in cui iniziamo a diffidare di Gerty, sicuri che sia stato programmato per fare il doppio gioco per conto della multinazionale. Infine comprendiamo che in fondo stiamo in una dimensione distopica in stile P.K. Dick – cfr. Atto di Forza (1990), Paycheck (2003), Cypher (2002) – dove i ricordi personali di Sam sono stati indotti attraverso chip e programmazioni cibernetiche, che poi diventa una riflessione umanistica alla Blade Runner (1982), dove i problemi dell’intelligenza artificiale, della clonazione umana, del Doppelgänger cibernetico, vengono considerati e problematizzati da un punto di vista più propriamente etico. Mai avremmo neppure lontanamente immaginato che l’umano troppo umano personaggio interpretato da Sam Rockwell (con quella sua aria un po’ hippy così sconsolata e malinconica) sia in realtà uno dei tanti cloni a risveglio programmato stoccati nei magazzini sotterranei della base, unicamente per adempiere al mantenimento della singolare filiera postfordista della Lunar.

Anche il gioco della suspense si alimenta di questi continui slittamenti diegetico-narrativi, costringendo lo spettatore a una attività ininterrotta di risemantizzazione simbolica e di ricalibrazione dello sguardo. L’immagine è ancipite, non facciamo in tempo a guardarla che si apre immediatamente ad altri mondi ed è proprio questa pluricodicità visiva e narrativa a implementare esponenzialmente il livello della suspense: il continuo gioco dei détournement ci costringe a uno sforzo supplementare per mettere a fuoco il particolare significante, cercando di riconoscere il main-plot che porta davvero avanti la storia dai continui red herring disseminati nel testo. Ecco che allora Moon si configura come una soglia, un vestibolo, una zona sempre indecisa tra un qui e un altrove. Il gioco delle aspettative in Moon sposta in continuazione l’asticella dell’orizzonte di genere, creando una molteplicità di spazi-tempo e tuttavia rimanendo fedele a quello originario: una strategia di disseminazione di tracce paratestuali che ci costringono ad assumere di scena in scena un diverso atteggiamento ermeneutico. I paratesti attuano una falsificazione del film: fingono di esporre alcune scene in maniera anodina e imparziale ma in realtà le stanno manipolando a nostra insaputa. Le stesse componenti semantiche dei mondi narrativi che vengono rielaborati implicano l’esistenza virtuale di una quantità indefinibile di schemi pregressi, di codici archetipici, di paradigmi culturali che recano in sé diversi – e a volte contradditori – sviluppi possibili della storia. Lo spettatore recepisce le indicazioni di genere, comincia a valutare il tipo di atto comunicativo che il film gli propone e, al contempo, a risvegliare la porzione di rizomi cinematografici e di esperienze testuali pregresse simili che è chiamato ad attivare per procedere all’interpretazione delle (nuove) informazioni narrative, con una suspense che si fa inevitabilmente più sfuggente e stratificata.

Tutto è doppio e ancipite in Moon. Gerty ha insieme la gravità ieratica di HAL 9000 e la leggerezza simpatica, malinconica e un po’ vintage di Wall-E. Anche il registro drammaturgico è duplice alternando momenti di autentico drama a sequenze di assoluta leggerezza. D’altra parte, la stilizzazione parodiante messa in atto da Moon non si risolve solamente nei riferimenti testuali stabiliti con i film evocati, ma piuttosto nella sua capacità di attingere a un complesso di procedimenti stilistici e formali – ma anche sottilmente ideologici – che attraversano sotterraneamente il film fino a farlo implodere in una disseminazione incontrollata del senso, provocando una suspense multi-centrata e polisemica, proprio perché attivata da una molteplicità di significanti.

Il “fuori sync” tra la sintagmaticità del testo e la paradigmaticità dell’orizzonte di genere di Moon catalizza e irrobustisce il livello della suspense, perché il gioco continuo di stimolo e di (dis)attesa finisce per sospendere e problematizzare il patto narrativo, nel suo dispiegare indiscriminatamente una quantità molto eterogena di forme, nelle quali vigono tutti i modi, compreso l’inganno, per catturare l’attenzione dello spettatore.

Moon diventa in continuazione qualcos’altro, pur mantenendo una coerenza stilistica e narrativa ineccepibile. Il suo aspetto più sorprendente è la maniera con la quale gioca con le aspettative dello spettatore e con i portati narrativi dei film che di volta in volta vengono evocati. D’altra parte, la Stimmung Become The Other è una fattispecie per la quale il “diventare un altro”, non è quasi mai riconducibile soltanto a una dinamica narrativo-psicologica che sfocia nell’ossessione/identificazione con l’altro da sé ma, appunto, ha quasi sempre a che fare con forme e sintagmi che si trasformano a loro volta, diventando in continuazione qualcos’altro, privando lo spettatore di ogni riferimento.

Doppelgänger psicologici ed esistenziali, ma anche visivi e narrativi, che implementano la suspense proprio perché la conducono nei territori incerti e precari dell’Unheimliche, dove scopriamo che forme e situazioni che credevamo familiari e amiche (e, soprattutto, che pensavamo di avere compreso), proprio per la confidenza e l’intimità precedentemente accordate, possono diventare improvvisamente e spaventosamente qualcos’altro.

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