Deflagrazioni cinematiche

Con Oppenheimer Christopher Nolan realizza il suo film più compiuto e maturo dal quale emerge il cinema che l’ha maggiormente influenzato

Incarnando i suoi personaggi nella Storia e scegliendo l’orizzonte di genere del biopic, nel bellissimo Oppenheimer (2023) Christopher Nolan si distacca in maniera netta dall’astrazione teorica del trittico dei suoi progetti sci-fi Inception, Interstellar e Tenet: film che secondo molti critici finiscono per compiacersi della loro sbandierata cerebralità e competenza scientifica, tanto da non sembrare a tratti neppure più cinema ma delle puntate di Superquark, impegnati come sono nello spiegarci quanto siano cool e gagliarde le teorie e i paradossi della scienza contemporanea, nel loro farsi cruciverba da compilare tutto d’un fiato, senza mai riuscire a crearne di propri di paradossi e di singolarità (spazio temporali).

Un cinema trasparente, enigmistico e gradevole, ma anodino e superficiale come deve essere in fondo un (buon) saggio divulgativo che si limita a spiegare bene la lezioncina e ad assecondare i gusti del pubblico, badando a non andare mai troppo in profondità per non annoiare i propri lettori, cosa tutto sommato piuttosto sorprendente considerato che la fantascienza dovrebbe raccontare il mistero, l’ignoto (spazio profondo) e l’in-audito del totalmente Altro, laddove invece nei tre film in questione si fatica a trovare traccia di mistero e di Unheimliche, visto che tutto è spiegato in continuazione e sempre perfettamente determinato da una causa efficiente: non c’è macula cieca, non ci sono eccedenze di senso né zone d’ombra.

Interstellar, scritto con la consulenza scientifica del fisico premio Nobel Kip Thorne

Con Oppenheimer, la passione e la competenza di Nolan per la scienza e i paradossi della relatività e della meccanica quantistica non si traducono più in un bignamino didascalico condito da mirabolanti effetti speciali a uso e consumo dello spettatore medio, anche se la chiamata a raccolta dei migliori fisici del secolo per il Progetto Manhattan rischia un po’ l’effetto Avengers: il regista inglese utilizza la vicenda del grande fisico ebreo e del gruppo di scienziati che lo affiancarono a Los Alamos per restituire uno spaccato complesso, problematico e stratificato di alcuni dei momenti più drammatici e cruciali del Novecento, che nulla ha a che fare con un’ingenua apologia del metodo scientifico spacciato come via regia all’emancipazione umana. La scienza e gli scienziati non assolvono più soltanto a una funzione positiva di comprensione e spiegazione della natura, ma vengono raccontati in tutta la loro contraddittorietà, senza ricette precostituite o formulette di comodo. La doppia personalità di Julius Robert Oppenheimer, scienziato esemplare devoto alla causa americana e istrionico/inaffidabile (presunto) collaborazionista sovietico in odor di sovversione, è in fondo analoga a quella della luce, simultaneamente onda e particella: è l’uomo che ha aiutato il mondo a porre fine alla barbarie del Secondo Conflitto Mondiale o lo scienziato che ha posto le basi per l’apocalisse atomica?

Il regista inglese aveva mostrato sin dagli esordi di maneggiare come pochi i codici della detection (Following, Memento, Insomnia, The Prestige) che erano andati un po’ persi dal Cavaliere oscuro in poi, e che ora torna a utilizzare con assoluta disinvoltura, pur con qualche lungaggine ed eccesso di verbosità, in un incastro temporale e narrativo che, nel suo classico stile a puzzle, si dipana gradualmente combinando la vicenda personale e familiare del grande fisico con la storia del Progetto Manhattan e con le conseguenze del maccartismo e della “caccia alle streghe” su di lui e il proprio lavoro.

Following segna il folgorante esordio di C. Nolan
Following segna il folgorante esordio alla regia di C. Nolan

Da questo punto di vista Oppenheimer è per distacco il suo film più ambizioso e rigoroso, una summa del suo cinema, che sembra poter deflagrare e implodere da un momento all’altro mostrando tutte le immagini tempo/cristallo e i cinèmi rizomatici che lo costituiscono:

Nolan guarda ancora una volta a Kubrick e ai viaggi dell’occhio di 2001 (quanto ricorda il volto giovane/vecchio del bravissimo Cyllian Murphy i primi piani siderali di Keir Dullea che, come Fleba il Fenicio di Eliot, attraversa tutti gli stati dell’esistenza fino a entrare nei gorghi dell’immobilità parmenidea della stanza rococò?), ma anche alla New Hollywood di Scorsese, De Palma e Malick.

L’ambientazione anni Trenta/Quaranta, la confezione da biopic simil gangster-movie con tanto di cappello fedora e di interrogatorio (lo stesso espediente diegetico del suo clamoroso esordio Following che già conteneva in nuce tutto il repertorio filmico della sua produzione successiva: anacronie, opacità della memoria, ribaltamenti prospettici, paradossi temporali, soundtrack minimale e incalzante), il ritmo forsennato, la coralità della narrazione rimandano al cinema adrenalinico e fluviale del regista di Goodfellas. La gestione del tempo da plain-heist, con i falsi flash-forward in stile Mission Impossible e il clamoroso crescendo della sequenza più riuscita del film, il countdown che porta allo scoppio della prima bomba atomica della Storia, quella del test Trinity del 16 luglio 1945, ci riporta al discepolo più devoto di Hitchcock e alle sue goniometriche strategie di suspense. E, infine, i fasci di luce, gli astri infuocati, le scintille incandescenti, i dettagli naturalistici, oltre all’utilizzo della macchina a mano e del piano sequenza, che richiamano il cinema panteistico a vocazione ontologico-filosofica del regista texano.

Kubrick vs Nolan

Per non dire del parallelismo con il celebre ottavo episodio della terza stagione di Twin Peaks, quello appunto della bomba atomica come origine del male, puntata non a caso intrisa, come tutto il cinema di David Lynch, di richiami all’antica sapienza indiana e alle sacre scritture dei Veda e delle Upaniṣad, che ritornano nella vicenda del fisico ebreo con la fatidica affermazione, ripetuta due volte nel corso del film, “adesso sono diventato Morte, il distruttore di mondi”, uno dei versi più noti della Bhagavadgītā, e forse anche il più frainteso. D’altra parte, le sovrapposizioni tra fisica novecentesca, filosofia e sapienza orientale sono state confermate una volta per tutte da Fritjof Capra nel suo ormai classico Il Tao della fisica.

E, a differenza di Dunkirk e del modo apparentemente neutro e documentaristico con il quale Nolan trattava il celebre episodio della Seconda Guerra Mondiale che nascondeva però una prospettiva ideologica schiacciata sul punto di vista alleato come avviene quasi sempre nei film bellici occidentali, in Oppenheimer il giudizio storico non è affatto partigiano: l’arma atomica è il male assoluto e il fatto che sia stata usata per ben due volte a distanza di pochi giorni a guerra sostanzialmente finita non ha giustificazioni possibili.

Del resto è ormai assodato che il Giappone non si arrese (soltanto), come continua a sostenere la propaganda atlantica, a causa delle due micidiali armi atomiche sganciate su ordine di Truman, ma anche perché, pochi giorni dopo l’olocausto di centinaia di migliaia di persone a Hiroshima e Nagasaki, l’esercito imperiale nipponico fu annientato in Manciuria da più di un milione di soldati russi, così come dovrebbe essere ormai agli atti, con buona pace di Roberto Benigni, che non furono gli americani a liberare Auschwitz.

Ma si sa, che siano i tempi di Oppenheimer e di Truman o epoche più recenti, la Russia e i russi non godono in genere di buona stampa.

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