YELLOWJACKETS: 5 MOTIVI PER RECUPERARE LA SERIE CAPOLAVORO SULL’IMMAGINARIO DEGLI ANNI NOVANTA – NO SPOILER

Femminismo post Me Too e problematiche adolescenziali, occultismo/sciamanesimo e antropofagia, teen drama e horror survival

La serie di Showtime tra Twin Peaks e Lost, tra Il signore delle mosche e Margaret Atwood, tra Picnic at Hanging Rock e Sofia Coppola, tra Midnight Mass e Rosemary’s Baby

Ca**o, non ne fanno più di canzoni così, mitici e imbattibili gli anni Ottanta: i Guns ‘n’ Roses, i Mötley Crüe, i Def Leppard…

Poi è arrivato quel finocchio di Cobain e ha rovinato tutto.

The Wrestler – Darren Aronofsky

Nell’inverno di due anni fa, in concomitanza con la congiuntura pandemica, è uscita su Showtime una delle serie più interessanti, originali e controverse dell’ultimo decennio, creata da Ashley Lyle e Bart Nickerson.

Anche se la trama in prima battuta può far pensare all’ennesimo survival drama

nel 1996 una squadra di calcio femminile liceale del New Jersey in volo verso Seattle per un torneo nazionale, precipita in una regione selvaggia e disabitata dell’Ontario e i superstiti vengono abbandonati a loro stessi per diciannove lunghissimi mesi. Nel 2021, dopo venticinque anni, scopriamo che alcune di quelle ragazze sono sopravvissute all’ambiente ostile e rigido della foresta e conducono una vita apparentemente normale, anche se vengono ancora ricordate come le “sopravvissute”. Una sequenza di eventi e minacce porterà il gruppo delle superstiti a riunirsi per affrontare un passato che sembra essere tornato a incombere pericolosamente su ognuna di loro…

– i motivi di interesse di Jellowjackets sono davvero tanti. Ne indichiamo 5 a titolo esemplificativo:

1. ATTRICI. Il primo aspetto che balza agli occhi sin dalle prime battute del pilota è il livello mostruoso delle interpretazioni, con un gruppo di attrici in totale stato di grazia, caratteristica decisamente poco usuale per una serie che diversi recensori hanno inizialmente presentato come un semplice teen drama, pensato a uso e consumo esclusivo di un pubblico di adolescenti. Per restare solo sul cast principale, tra i personaggi/interpreti del piano narrativo del 1996, c’è la polanskiana Shauna interpretata dalla splendida Sophie Nélisse che come Mia Farrow in Rosemary’s Baby si trova a dover fare i conti con una gravidanza che assume dei contorni demoniaci; notevolissima anche la performance della rivelazione Sophie Thatcher (di cui certamente sentiremo ancora parlare) che dà il suo volto all’affascinante personaggio di Natalie, la belloccia anticonformista del gruppo; c’è poi la schizofrenica Taissa interpretata dalla bravissima Jasmin Savoy Brown, già vista in Scream 5 e 6 e in The Leftlovers e, infine, la clamorosa Samantha Lynne Hanratty che interpreta il personaggio più controverso, perverso e sfaccettato della serie prodotta da Showtime, Misty Quigley, una specie di Jeffrey Dahmer in gonnella.

Ma l’aspetto più geniale del casting di Yellowjackets è costituito dalla scelta delle interpreti principali del piano temporale/narrativo del 2021, che hanno il volto di tre attrici simbolo degli anni Novanta:

  • Melanie Linskey, attrice feticcio di Peter Jackson che nel 1992 la fa debuttare al cinema accanto a Kate Winslet nel suo Creature dal cielo e che nella serie interpreta la Shauna adulta: borghese, molto in carne e priva di scrupoli morali.
  • Juliette Lewis che con Cape Fear (1991), Triplo Gioco (1993), Buon compleanno Mr. Grape (1993), Natural Born Killers (1994), Strange Days (1995), Dal tramonto all’alba (1996) rappresenta meglio di chiunque altro lo spirito del cinema (e della cultura pop) degli anni Novanta. La Lewis interpreta magistralmente il ruolo dell’ex belloccia ormai completamente sfatta Natalie che, dopo la tragedia area, è diventata una loser borderline tossicodipendente, asociale e violenta, che nulla ha più da chiedere alla vita.
  •  Cristina Ricci. L’ex bambina prodigio di Tim Burton, che in Yellowjacktes interpreta la perversa e bugiarda Misty, fornisce una prova attoriale semplicemente sensazionale, di gran lunga la migliore della sua già formidabile carriera. E la somiglianza/continuità con la sé ragazzina interpretata da Samantha Lynne Hanratty rappresenta una delle performance di coppia più memorabili della storia della serialità televisiva.

2. HORROR ANTROPOLOGICO. Yellowjackets si inserisce a gamba tesa in un filone horror contemporaneo, cinematografico e seriale, che guarda con attenzione certosina e rigore storico-filologico alla relazione che intercorre tra Cristianesimo, spiritualità e culti pagani e che indaga le diverse incarnazioni del maligno a partire da precise coordinate esistenziali. Da The Witch (2015) a Midsommar (2019), da Evil (2019) a Midnight Mass (2021) c’è come la consapevolezza che affinché l’orrorifico possa sprigionare la propria forza mostruosa, sia preliminarmente necessaria la ricostruzione di un contesto storico e di una peculiare situazione socio-politica; non c’è metafisica demoniaca senza la messa in scena di un hic et nunc incarnato in una precisa comunità di uomini e donne, con il corollario di un insieme di regole e di caratterizzazioni religiose, folcloriche e rituali. Non più o non soltanto le convenzioni e gli strumenti del genere ma anche e soprattutto una chirurgica analisi sociale e antropologica di un universo narrativo che, nel caso, di Yellowjackets – che pure si abbevera anche all’immaginario horror analogico anni Novanta – è dato dal realismo estremo delle dinamiche attraverso le quali una comunità di adolescenti borghesi degli anni Novanta riesce a sopravvivere per diciannove mesi in condizioni ambientali, psicologiche ed emotive di totale avversità, sacrificando inevitabilmente la propria visione del mondo e, in alcuni casi, la loro stessa vita. Del resto, come ci ha spiegato Girard ne La violenza e il sacro, la comunità ha bisogno di un capro espiatorio e della dinamica del sacrificio rituale per consolidare la propria unione e garantirsi dalle forze della dissoluzione: è soltanto attraverso il sacrificio di alcuni dei suoi membri che l’esistenza religiosa e sociale della comunità potrà venire salvaguardata.

    3. TWIN PEAKS E LOST. Come è stato notato, Yellowjackets rappresenta un’originalissima sintesi delle due serie capostipite della serialità contemporanea a forte sviluppo orizzontale: Twin Peaks (1990) e Lost (2004). Della serie di culto di David Lynch e Mark Frost mantiene l’utilizzo dei codici della detection e del whodunit, la messa in scena molto pop e commerciale, l’attenzione per l’adolescenza e il mondo della scuola e, soprattutto, gli elementi esoterico-iniziatici, con i continui riferimenti a pratiche sciamaniche e alle filosofie orientali, oltre che, soprattutto nella seconda stagione, il frequente ricorso alla gag demenziale e al nonsense metafisico, in perfetto stile Lynch.

    Del capolavoro di J.J. Abrams Yellowjacket conserva invece la trama e la struttura di fondo (l’incidente aereo e la riorganizzazione dei superstiti), oltre all’utilizzo di due piani temporali principali che consentono allo spettatore di mettere a fuoco il prima e il dopo. Ma laddove Lost si focalizza su un punto di vista quasi esclusivamente maschile, Yellowjackets ribalta il paradigma patriarcale dominante raccontando dei conflitti narrativi e dei percorsi di formazione/emancipazione tutti al femminile, che rimandano alla letteratura e al cinema che hanno messo a tema l’adolescenza delle ragazze, dai romanzi della Alcott a quelli di Margaret Atwood, dalle atmosfere mistiche e preraffaellite di Picnic at Hanging Rock di Peter Weir al cinema di Sofia Coppola e di Greta Gerwig.

    Ma ci sono anche il gusto lostiano del colpo di scena e del cliffhanger, i piani temporali che si intersecano, l’ineffabile presenza metafisica che abita il bosco dove è precipitato l’aereo, i doppi giochi e i tradimenti di personaggi che non sono mai quello che sembrano, le alleanze e le rivalità che si formano internamente al gruppo dei sopravvissuti.

      4. SOUNDTRACK. Uno degli aspetti che ha più colpito della serie creata da Ashley Lyle e Bart Nickerson è la sua incredibile colonna sonora rigorosamente anni Novanta. Fino a Yellowjackets le serie che guardavano a un passato recente erano ambientate quasi esclusivamente negli anni Sessanta/Settanta/Ottanta, considerati più iconici, riconoscibili e cinematografabili. Gli anni Novanta sono un terreno meno battuto da cinema e serialità: forse ancora troppo vicini per essere valutati, o forse troppo poco connotati e sfuggenti per essere fissati in elementi narrativi riconoscibili.

      Già a partire dalla splendida sigla iniziale di Alanis Morissette che ha reinterpretato la sua “Return” per i titoli di testa, la soundtrack è un profluvio di grandi hit di fine Millennio: dai Garbage ai Radiohead, dai Massive Attack a Tori Amos, da Kim Wilde ai Cranberries, da The Smashing Pumpkins ai Nirvana: l’impressione guardando/ascoltando le due stagioni di Yellowjackets è che Mickey Rourke nella sua celebre battuta in The Wrestler ci abbia visto giusto sottolineando la cesura pessimistico/nichilista che gli anni Novanta hanno rappresentato rispetto al decennio precedente.

      5. COMING OF AGE. Fatico a ricordare un ritratto così onesto e spietato di cosa significhi essere una ragazza adolescente. Di teen drama seriali ce ne sono moltissimi, alcuni dei quali di assoluto valore. Da 13 Reasons Why a Euphoria, da Dawson’s Creek a Stranger Things, tutti titoli che, in maniera diversa, hanno raccontato l’adolescenza con grande efficacia e sensibilità. Ma sovrapponendo il prima e il dopo della vita delle sue protagoniste, Yellowjackets fa qualcosa in più: nel suo essere insieme un thriller, un horror, un survival ma, soprattutto, un coming of age, costruisce delle traiettorie esistenziali che rimangono aperte, imprevedibili e contraddittorie, come è sempre in fondo la vita di ogni essere umano, in particolar modo se adolescente. Le ragazze diventate adulte non sono delle versioni migliori di se stesse, in grado di lasciarsi alle spalle e superare le cicatrici giovanili e la perdita dell’innocenza: quei ricordi/dolori lancinanti e inauditi resteranno e il rimosso ritornerà freudianamente a galla, anche se nascosto in cantina, obnubilato dalla droghe o rinchiuso in una cassaforte.

      È una serie che induce il binge-watching non solo per una struttura narrativa solidissima, ma anche e soprattutto per la tridimensionalità esistenziale dei suoi personaggi. Non ci sono le polarizzazioni morali con i buoni e i cattivi tipiche di tanta serialità contemporanea perché si tratta di personaggi a tutto tondo, il cui carattere/personalità si delinea in corso d’opera, proprio mentre li stiamo guardando. Del resto, Yellowjackets si configura come una storia di tipo character driven, in cui gli eventi sono portati avanti dalle azioni e dalle scelte esistenziali dei personaggi, in opposizione alle storie plot driven dove gli eventi accadono per lo più a causa delle situazioni collegate al meccanismo diegetico principale.

      Gli anni Novanta si sono conclusi con la caduta delle due torri e il collasso di un intero immaginario che ci ha trasportato in un altrove molto diverso da quello che avevamo desiderato: aspettiamo con impazienza la terza stagione per sapere se c’è ancora qualche speranza di redenzione.

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