La sera della Vigilia, in attesa di celebrare la messa di mezzanotte, tediato dall’atmosfera natalizia e da un opprimente mal de vivre, mi ero sistemato nella modesta stanza di soggiorno della nostra canonica, attendendo ad un difficile studio su alcuni aspetti controversi del mito di Atteone nell’interpretazione di Giordano Bruno, lavoro che, come è facilmente immaginabile, richiede concentrazione e una dedizione davvero assoluta.
Fui dunque lieto di interrompere quelle perigliose letture quando James, il mio solerte sagrestano, mi informò dell’improvvisa e inattesa visita dell’amico di un tempo, il celebre musicista e filologo neoplatonico Stefano Catucci.
Pregai subito il mio fedele servitore di fare accomodare l’illustre ospite nel bel salotto stile impero, gentile e antica donazione alla nostra umile parrocchia degli scomparsi duchi di Colloredo. Non appena lo vidi oltrepassare la soglia lo abbracciai calorosamente, invitandolo poi a sedere sullo spazioso divano color beige e a raccontarmi le ultime vicende della sua movimentata esistenza. Egli con una vena di nostalgia ricordò innanzitutto l’occasione del nostro ultimo memorabile incontro, risalente a diversi anni addietro, quando passammo una lunga nottata insieme, riflettendo come da par nostro, naturalmente davanti ad un bottiglia di ottimo Yoghi-tea, su alcune delle più affascinanti etimologie di Isidoro di Siviglia. Rinverdimmo poi quel felice periodo della nostra vita in cui, senza alcuna paura e timore reverenziale, trascorrevamo le nostre mattinate di studio in ardite disputiones teologiche con gli anziani padri gesuiti del seminario arcivescovile di Tubinga Ligure mentre nei pomeriggi, finalmente liberi dai negotia e dalle incombenze scolastiche, rincorrevamo gioiosamente scoiattoli e castori nei rigogliosi boschi che circondavano il monastero.
Ma, all’improvviso, Catucci si fece terribilmente serio. Il suo volto diventò d’un tratto attento e stranamente compunto. Lo conoscevo sin troppo bene per non comprendere che quel cambiamento d’umore non era dovuto a una forma di stanchezza o al suo bisogno inesausto di stupire a tutti i costi, ma che esso preludeva piuttosto allo svelamento del reale motivo della sua visita. In effetti, mi era parso da subito particolarmente curioso e sospetto che un uomo mondano come Stefano Catucci piombasse nella mia modesta parrocchia (e senza alcun preavviso!) proprio la sera della Vigilia. Doveva esserci qualcosa di importante sotto; oppure, come un insondabile istinto mi suggeriva (ma il solo pensiero mi dava i brividi), la visita dell’amico di un tempo era dovuta a motivi funesti e terribili.
Mentre mi perdevo in questi oscuri ragionamenti, quell’uomo formidabile, con una lentezza che mi parve sin troppo esibita e teatrale, estrasse dalla giacca un pacchetto di ridotte dimensioni, lanciandomelo tra le mani e invitandomi a verificarne il contenuto. Dentro l’involucro trovava posto un piccolo volume, consunto dalla dedizione dei lettori e dall’indifferenza del tempo, che recava sul frontespizio la semplice ma inequivocabile dicitura di Principia et documenta vitae cristianae. Mi alzai in piedi colto da un fremito di spavento. Respiravo a fatica. Dunque alla fine l’aveva trovato! Sul fondo della pagina l’anno di pubblicazione, 1733… non potevano esserci dubbi: si trattava proprio del manuale segreto del cardinale cistercense Joanne Bona. Lo sfogliai con ritegno misto a venerazione. Una goccia di sudore mi solcò il volto. Cercai subito la parte incriminata. Il passo di Giovanni (15, 19) veniva riportato nella sua interezza: «Si de mundo essetis, mundus, quod suum erat, diligeret: quia verò de mundo non estis, sed ego elegi vos de mundo, propterea odit vos mundus» (§. XLII – pag. 115). Il sagace commento del religioso trapelava già dal titolo del paragrafo: «Oportere Religiosum à mundo alienum esse». Continuai a leggere, mentre davanti a me il Catucci si accendeva con apparente noncuranza l’ennesima sigaretta: «Quo magìs autem à mundi actibus alienus fuerit, eò citiùs ad apicem perfectionis perveniet, & quò minus inter gentes versabitur, eò majori pace, & animi libertate fruetur» (pag. 117).
Non andai oltre. Quello che avevo letto mi bastava. Il sangue mi era salito alla testa. La decisione a quel punto mi parve inevitabile. Terribile ma inevitabile. Richiusi l’esile volume e lo sistemai sul tavolino di fronte a me. Sorrisi all’amico d’un tempo mentre, estratto il rosario dalla tasca del talare, mi avvicinai a lui con malcelata trepidazione. Catucci avrebbe certamente fatto un uso sbagliato del Libro. Non avevo alternative.
La vista di quel volto implorante e deforme, mentre io stringevo il vecchio rosario attorno al collo pallido e madido di sudore, mi parve il segno più inequivocabile della sua colpevolezza. Certo, molti non comprenderanno il motivo di un gesto così perentorio, convinti che la mia decisione sia stata condizionata, più che dalla carità, dalla fede e dalla speranza, da profonde incertezze teologiche e da una grave forma di malattia mentale. E tuttavia, miei cari fratelli, credo di avere agito per il meglio, anche se, non lo nego, la morte di una persona straordinaria come Catucci è stata (per me più di chiunque, credetemi!) un colpo durissimo.
Per completare il racconto di quella malaugurata vigilia debbo soltanto aggiungere che poco prima di mezzanotte, coadiuvato da James, mentre la neve cadeva abbondante sul piccolo cimitero parrocchiale, diedi un’adeguata sepoltura a quel grande uomo, sistemando accanto al feretro (a mo’ di monito eterno) il petit livre che ne aveva inesorabilmente decretato la morte (la tumulazione, sia detto per inciso, è stata preceduta da un breve ma significativo rito funebre). Circa mezz’ora dopo ho celebrato regolarmente la messa che è risultata paradossalmente più frizzante del solito tanto che un paio di ragazze sono venute a complimentarsi per l’insolita verve della mia predica.
Ho ritenuto opportuno raccontare nella loro cruda verità questi fatti, non per vanità o per orgoglio personale, ma per un’interiore necessità che mi imponeva di rendere a tutti note le tristi circostanze della scomparsa di Catucci.
Questa dunque l’addolorata e difficile confessione di un uomo stanco e ormai giunto alla fine dei suoi giorni. So di avere agito con troppa impulsività e non potrò mai perdonarmelo.
Parce sepulto! Ora e sempre nei secoli dei secoli. Amen.
Don Giorgio Facchetti
(Sacerdote emerito della parrocchia di Paolillo di Vigonza (PD) e vicario capitolare della città di Marano Isontino (GO)).
Genio. Sublime.
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