Se si dovesse indicare un film che più di qualsiasi altro sintetizza e sublima la poetica, le tematiche e lo specifico filmico del cinema di Ophuls, forse anche lo spettatore meno addentro all’opera ophulsiana dovrebbe rivolgersi proprio a Madame De…, “il film più perfetto mai realizzato”, secondo il critico americano Andrew Sarris, venerato e amato alla follia da gente come François Truffaut, Stanley Kubrick, Martin Scorsese e Paul Thomas Anderson.
La messa in scena raffinatissima a dispetto di un plot che appare (almeno inizialmente) abbastanza prevedibile, la fatuità dei sentimenti, il disimpegno e la leggerezza dei rapporti interpersonali, l’attenzione spasmodica alla calligrafia e al décor manierista, i sensazionali movimenti di macchina, le inquadrature sbollate, l’edonismo dei personaggi: Ophuls costruisce una mise en abyme del milieu decadente della Belle Époque e dell’ottimismo positivistico dell’Europa fin de siècle, in un vertiginoso dépouillement di tutto il suo repertorio cinematografico che viene progressivamente spogliato da ogni significato/funzione precostituiti dalla vorticosa forza centripeta della sua macchina cinematografica, in una vera e propria reductio ad nihilum, che prova a rendere visibile il vuoto, il nulla che abita i suoi personaggi, la pura e semplice superficie che anima la mondanità europea dell’epoca.
Nella Parigi aristocratica di fine Ottocento, la contessa Louise (una meravigliosa Danielle Darrieux) vende di nascosto un paio di orecchini, dono di nozze del marito, generale dell’esercito francese (un glaciale Charles Boyer), facendogli credere di averli perduti. I preziosi gioielli, come un classico macguffin hitchcockiano (ma vengono in mente anche la purezza e il candore del Balthasar bressoniano), passano di mano in mano cambiando proprietario numerose volte fino ad arrivare in possesso del nobile italiano Fabrizio Donati, interpretato da Vittorio De Sica, che si innamora perdutamente di Louise. Il gentiluomo li regala alla donna come simbolo del suo amore, ma questo scatena inevitabilmente la gelosia del marito che sfida a duello il rivale.
Tratto dall’omonimo racconto di Louise De Vilmorin (1951), considerato dalla critica coeva (e forse anche da Ophuls) alla stregua di un romanzetto rosa d’appendice, una sorta di “vaudeville mondain” per la leggerezza e l’inconsistenza della trama e per il quasi inesistente lavoro di approfondimento psicologico dei personaggi, Madame De… è un film basato proprio sulla sottrazione, che è insieme fisica, la sparizione dei gioielli, e metafisica, la destrutturazione/messa alla berlina di una società che si è fatta sempre più evanescente e frivola e per la quale Ophuls nutre un contraddittorio sentimento di repulsione/attrazione. L’apologia della forma e dei significanti e l’esaltazione della forza centripeta della struttura diegetico/narrativa contribuiscono a mettere in scena l’ennesimo e irrefrenabile girotondo ophulsiano che però, rispetto al precedente La Ronde (1950), si è fatto talmente travolgente da diventare quasi invisibile, se non addirittura fantasmatico (Truffaut ricordava d’altra parte che l’idea originaria di Ophuls era quella di girare tutto il film nei riflessi degli specchi). E, nonostante l’apparenza iniziale da operetta frivola, con l’incipit in cui veniamo calati all’interno di una commedia sentimentale à la Lubitsch dove vengono consumati tradimenti e illusioni amorose, tra pizzi svolazzanti, cene eleganti e i sofisticati riti dell’aristocrazia, il film scivola inevitabilmente e inesorabilmente verso la tragedia.
A Ophuls interessano le liturgie sociali e sentimentali che animano la società dell’apparenza e del rito svuotato, in altri termini rendere visibile il vuoto della vita dei suoi protagonisti che, va da sé, corrisponde al vuoto di un’intera società ed ecco perché i due personaggi protagonisti del film non hanno (cog)nome, con il regista di Saarbrüchen che si diverte a inscenare la reticenza dichiarata sin dal titolo con una lunga serie di espedienti ironici: lo starnuto improvviso, il lapsus provvidenziale, l’autocensura preventiva, la ritrosia maliziosa.
Ma a differenza della De Vilmorin che aveva optato anche per un’ambientazione neutrale e metastorica, Ophuls sceglie di circostanziare l’hic et nunc della narrazione e decide di optare per la Francia della Terza Repubblica, cosmopolita ed internazionalista ma anche pesantemente colonialista (nel film si ascoltano molte lingue), animata da relazioni diplomatiche e sfrenato dinamismo commerciale.
Maestro della composizione dinamica, vera e e propria incarnazione filmica dei flussi vitalistici bergsoniani, incapace di tenere ferma la mdp anche per un solo secondo, Ophuls dirige forse il film più meravigliosamente superficiale che sia mai stato concepito, nelle vertiginose spirali danzanti degli amanti, talmente spasmodiche e frenetiche da farle sembrare un unico infinito ballo, in cui presente e passato si fondono e finiscono per diventare un tragico tableau vivant da cui i personaggi non possono più uscire.
È l’immagine-cristallo di cui parla Deleuze che spiega la dimensione circolare del film e l’insistenza, sottolineata da Truffaut, sull’uso degli specchi e dei riflessi. L’immagine ophulsiana è doppia per natura; in essa l’indiscernibilità tra attuale e virtuale, presente e passato, reale e immaginario non viene prodotta nella mente dello spettatore, ma è un vero e proprio carattere oggettivo dell’immagine, rimandando alla sovrapposizione/con-fusione dei ricordi e della memoria, al déjà-vu perpetuo in cui tutto ritorna e riemerge in continuazione.
Cinema scisso tra la bellezza, la grazia e la leggerezza che sono la celebrazione del femminile da una parte e, dall’altra, dalla forza prepotente, virile e rigorosissima della sua organizzazione cinematografica, unica e irripetibile; quella stessa formidabile capacità registica che ha fatto dire a un certo Stanley Kubrick che Max Ophuls fosse il regista che più ammirava ma anche quello che l’aveva maggiormente influenzato.
Voto: 10