Terenzio (1937 – 2009)

topolò 014

Ho conosciuto Terenzio nel 2005. Fu il gesuita padre Mario Vit a presentarmelo, in occasione di un seminario filosofico organizzato nelle Valli del Natisone, programmaticamente intitolato proprio “Terentius day”. Fui subito colpito dal suo sguardo sempre vigile e dalla refrattarietà alla convenzione e al luogo comune. La sua naturale inclinazione alla metafora e all’invettiva dissacrante mi invogliarono ad approfondire la sua conoscenza. Il bancone di un bar e un numero imprecisato di bicchieri di vino fecero il resto.

Qualche mese dopo gli proposi di prendere parte al mio mediometraggio Lintver, ambientato nelle Valli, dove avrebbe dovuto interpretare se stesso. Lo convinsi facendo leva sul suo carattere istrionico e comunicandogli il mio desiderio di costruire un film basato unicamente sulla forza delle immagini e sulla cifra poetica dei luoghi e delle persone. Nessuna finalità banalmente commerciale sottolineai con la dovuta serietà dopo che lui mi aveva interrogato a proposito.  Alla fine accettò di partecipare anche se si dimostrò decisamente scettico rispetto alla possibilità che il cinema potesse restituire una verità poetica di qualche sorta. La poesia è nelle cose e non può essere comunicata mi suggerì con uno dei suoi funambolici calembour dialettici. Solo ora capisco che cosa intendesse dire. Rispetto al personaggio che avrebbe dovuto interpretare non fece invece alcun commento. La falsa modestia non gli si addiceva.

A chi lo visitava nel suo studio-abitazione a Ponte San Quirino era solito mostrare alcune consunte fotografie in bianco e nero della sua infanzia. Neonato in braccio alla madre morta precocemente (Terenzio perse entrambi i genitori in giovane età). Scolaretto sui banchi di scuola con lo stesso sguardo ironico e beffardo del Terenzio maturo, quasi a dimostrare uno dei suoi assunti teorici più ricorrenti: il passare del tempo è una mera apparenza e la vita umana non è che l’eterno teatro di questa finzione. Da consumato attore (durante i suoi anni in collegio recitò in alcune commedie pirandelliane) amava chiosare con frasi ad effetto.

Ma la fotografia più formidabile, divenuta per molti dei suoi frequentatori un’icona al pari del Che Guevara di Korda o del Padre Pio del santino, lo ritrae giovane balilla, tra il serio e il faceto, intento in un entusiastico saluto romano. Terenzio non ha mai amato il politicamente corretto. Appassionato di storia, collezionava i testi enciclopedici allegati ai quotidiani, che compulsava e scompaginava alla ricerca di associazioni di volta in volta revisionistiche o rivoluzionarie. Ma non gli interessava l’erudizione e la filologia lo disgustava. La storia per lui era un atto di fede. Le testimonianze, gli archivi, le statistiche erano solo un pretesto per la discussione e la disputa filosofica.

Oggi si abusa della parola “anticonformista”, ma lui lo era nel senso più intimo ed essenziale. Respingeva le convenzioni sociali che capovolgeva e riutilizzava a suo piacimento. La sua giornata tipo è un esempio emblematico della sua attitudine al paradosso e al detournement, inteso in maniera ancora più rigorosa del progenitore Debord. Terenzio non riusciva a concepire la notte soltanto come il tempo del sonno e del riposo. Si coricava nel tardo pomeriggio alzandosi all’ora in cui noi altri di città in genere si va a dormire. Dopo le abluzioni (che in realtà ritengo fossero episodiche e saltuarie), nel cuore della notte, si preparava un pasto frugale che accompagnava a una o più bottiglie di vino. Negli ultimi tempi non mangiava molto perché aveva grossi problemi di masticazione a causa della mancanza di denti. Nel silenzio notturno della sua cucina lo immagino dedito alla riflessione speculativa o alla lettura di qualche romanzo della sua vasta collezione di volumi allegati ai giornali (sui suoi scaffali ricordo di aver visto I tre moschettieri, L’invenzione di Morel L’uomo che fu Giovedì oltre ai romanzi di Verne), con una sigaretta in bocca e sulla testa uno dei suoi classici berretti di lana per proteggersi dal freddo. Solo in tarda mattinata usciva in motorino per raggiungere il bar o l’osteria e riprendere la mescita. Tornato a casa si rimetteva a leggere o si faceva un solitario con le carte da gioco nel suo soggiorno-camera da letto, che odorava di umidità, di urina, di mozziconi di sigaretta e di un carico di solitudine che avrebbe devastato chiunque.

Quando andavo da lui lo trovavo spesso sdraiato sul letto con il televisore acceso a volume molto brillante. Guardava spesso “rete 4”, che, di questi tempi, viene comunemente considerata l’emittente più commerciale e asservita al potere. Un giorno, provocatoriamente, glielo feci notare. Gli chiesi come fosse possibile che il suo televisore fosse perennemente sintonizzato sul canale di Emilio Fede e delle televendite di materassi. Mi guardò come si guarda un bambino che non riesce a far di conto e alzò ulteriormente il volume dell’apparecchio. Da vero anticonformista Terenzio non biasimava i conformisti che, anzi, lo incuriosivano come può incuriosire un fenomeno antropologico che, proprio in quanto tale, merita rispetto e considerazione.

Dei festival culturali che hanno fatto la fortuna delle Valli del Natisone Terenzio sembrava non approvare lo stile e l’assunto di fondo.  Non si può fare esperienza di un testo teatrale o di un’opera d’arte con la stessa disinvoltura con cui si va al bar o in un supermercato. Da irriducibile individualista quale era sosteneva che la poesia è un’esperienza personale e pericolosa e la sua democratizzazione spettacolare non lo convinceva o, nel migliore dei casi, lo lasciava indifferente. “Bisogna che impariate a cadere e a farvi male” ci disse un giorno dopo il suo ennesimo incidente in motorino. Credo che intendesse dire che in qualsiasi percorso di ricerca sia necessario rischiare sulla propria pelle, a costo di farsi male e provare dolore. Parlava con cognizione di causa. Di cadute e di lanci nel vuoto Terenzio se ne intendeva visto che, oltre che operaio, fotografo e pittore, fu anche paracadutista.

Qualche anno fa ci aveva incaricato di acquistargli una macchina fotografica nuova (quello che restava del suo vecchio banco ottico a soffietto giaceva da anni in cantina). Pretendeva una reflex con obiettivi intercambiabili. Gliela comprammo. Ci teneva molto a riprendere a fotografare. In fondo per Terenzio è sempre stata una questione di sguardo, di come si guarda e di cosa si sceglie di guardare.

Mi risulta dunque quasi inevitabile ora immaginarlo con la sua reflex da qualche parte in giro per il mondo a inquadrare e a mettere a fuoco, per restituirci un’immagine con molti chiaroscuri, piena di contrasti e di zone buie, magari spesso brutta ed antiestetica, ma che non espunge le contraddizioni e le zone d’ombra che, anzi, diventano centro prospettico e compositivo attraverso il quale interpretare tutto il resto.

Terenzio

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