I motivi per cui anche uno spettatore completamente a digiuno del cinema di Ophuls dovrebbe vedere La signora di tutti sono molteplici. In primis, è l’unico film italiano del regista di Saarbrücken realizzato con maestranze quasi esclusivamente locali in un clima e in un contesto particolarissimi che sono quelli dell’Italia del dodicesimo anno del regime fascista, che è l’ultimo posto dove ci si aspetterebbe di trovare l’ebreo Ophuls che è appena scappato dalla Germania in seguito all’incendio del Reichstag, giusto qualche mese dopo aver finito di girare in fretta e furia Liebelei (1933) mentre Hitler diventava cancelliere del Reich; del resto Ophuls, oltre ad avere origine ebraiche, secondo il figlio Marcel, aveva avuto in gioventù simpatie marxiste e comuniste (ragione per cui non era riuscito a finire il suo percorso liceale). Ma non dobbiamo dimenticare che proprio nel 1934, anno di realizzazione del film, il tentativo del Führer di annettere l’Austria, culminato con l’assassinio del cancelliere austriaco Dollfuss, si dovette scontrare con la dura opposizione del duce che mobilitò l’esercito al Brennero, con il chiaro scopo di dissuadere la Germania nazista dalle sue mire espansionistiche ed egemoniche. Siamo in una fase quindi in cui il rapporto tra i due dittatori è ancora molto controverso e l’Italia veniva avvertita come una nazione tendenzialmente ostile a quanto stava avvenendo all’interno del terzo Reich, tanto è vero che Ophuls sosterrà di non avere avuto alcun problema con i fascisti italiani e anzi “di non avere mai incontrato un vero fascista”.
Un altro aspetto di straordinario interesse del film è il ruolo svolto in esso dall’imprenditore/produttore tycoon Angelo Rizzoli – il William Randolph Hearst italiano – com’ebbe a definirlo lo stesso Ophuls, che si innamora subito della sceneggiatura tratta dal feuilletton di Salvator Gotta e mette in piedi in brevissimo tempo una formidabile macchina produttiva in cui, per la prima volta in Italia, convergono editoria, cinema e industria musicale e discografica. La signora di tutti è uno dei primi film (se non il primo in assoluto) a mettere esplicitamente a tema il funzionamento dei meccanismi mediatici e paratestuali del sistema/cinema muovendosi in una zona intermedia tra la realtà fattuale e i regimi della finzione: la zona della costitutiva ambiguità ontologica dell’immagine in cui diventa indiscernibile il confine tra la nostra realtà quotidiana e la sua riproduzione fantas(ma)tica. In fondo la storia di Gaby Doriot e quella dell’allora sconosciuta Isa Miranda che, da commessa in un grande magazzino nel volgere di pochi anni, finisce a Hollywood, sono del tutto sovrapponibili. Fu proprio Rizzoli a insistere con Ophuls, tra più di duemila aspiranti al ruolo, sulla trentacinquenne Isa Miranda, “la Greta Garbo dei poveri” che, stando a quanto ricorda Ophuls, “fino al giorno prima vendeva guanti in un grande magazzino ma talento ne aveva da vendere”.
Film di un’anomalia assoluta nella scena italiana degli anni ’30 – lontano anni luce sia dal cinema di regime che da quello dei telefoni bianchi (Blasetti e Camerini, amatissimi dal duce) ma molto diverso anche dalla semplicità e dall’essenzialità del precedente Liebelei – meritatissimo vincitore della Coppa del Ministero delle Corporazioni quale film italiano “tecnicamente migliore” presso la seconda Mostra del cinema di Venezia, La signora di tutti vede la femme fatale Isa Miranda nei panni autobiografici della milanese Gabriella, figlia di un colonnello e orfana di madre che, ormai divenuta una diva in Francia con il nome d’arte di Gaby Doriot, si trova a lottare tra la vita e la morte in una sala operatoria dopo aver tentato il suicidio mentre la attendono sul set di un film.
Ophuls sceglie di scompaginare la linearità dello sviluppo narrativo del romanzo e adotta una narrazione à rebours, attraverso un ininterrotto flashback che anticipa di 16 anni quello usato da Billy Wilder in Viale del tramonto – che viene innescato dalla sequenza più emblematica del film, con una rapida successione di inquadrature mozzafiato e assolutamente avanguardistiche che mostrano il momento in cui l’attrice viene anestetizzata attraverso una grande maschera che lentamente le viene calata sul volto, (tras)portando anche lo spettatore in uno stato di narcosi pre-cosciente. Del resto il film inizia(va) con un’immagine altrettanto ipnotica e lisergica, l’inquadratura di un disco che ruota vorticosamente sulle note di una canzone cantata proprio da Gaby, configurandosi sin da subito come una specie di Quarto potere ante litteram con un montaggio altrettanto veloce e sincopato, i flashback che si susseguono senza soluzione di continuità scivolando l’uno addosso all’altro, la vertigine e il virtuosismo dei carrelli e dei movimenti di macchina (che da La signora di tutti in poi diventeranno il premiato marchio di fabbrica della ditta), i ciclostili e i rotocalchi che producono ininterrottamente l’immagine patinata di Gaby Doriot, la costruzione mediatica della diva che si fa progressivamente indistinguibile dal suo profilo biografico e esistenziale; tutto ciò, insieme all’incredibile maestria tecnica di Ophuls, provoca nello spettatore continui scarti tra momentanee emersioni di realtà e l’inevitabile e piacevole caduta nel tepore di una suspension of disbelief.
Infine, tra i motivi d’interesse del film non possiamo trascurare l’ambientazione aristocratica (le meravigliose scene gotiche e d’atmosfera girate nella grande villa del conte Nanni, fotografate dal genio di Ubaldo Arata, che divenne poi il direttore della fotografia del Rossellini di Roma città aperta) e la grande interpretazione sia dell’esordiente Isa Miranda che del decano Memo Benassi ma, anche e soprattutto, dell’invalida in sedie a rotelle interpretata da Tatiana Pavlova, protagonista della scena più meravigliosamente hitchcockiana del film (tutta la parte ambientata alla villa anticipa in maniera sorprendente alcune sequenze di Rebecca – La prima moglie), quella della straziante rincorsa in carrozzella al marito fedifrago e alla sua protégée Gaby, con la radio che trasmette in sottofondo Il Tristano e Isotta.
Voto: 9
Memo BENASSI il maggiore attore italiano di Teatro.
Inarrivabile.
Peccato che in questo Paese i grandi non siano ricordati e celebrati dalle Istituzioni.
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