
Sul caso dell’imprenditore Genovese e della ragazza diciottenne che lo accusa di stupro e violenze, mi è capitato di discutere animatamente con un paio di amici. Non conosco che per sommi capi la vicenda in questione ma mi è sembrata interessante per innescare una riflessione più ampia. Il motivo del contendere era legato al classico argomento del “in fondo se l’è cercata”, declinato nelle sue varianti “vestiva in maniera provocante” “si atteggiava a zoccola”, “su instagram pubblica foto da pornodiva” et cetera et cetera…
Lo stupro e la violenza andrebbero condannati senza se e senza ma, come si suol dire. E, cionondimeno, un “ma” forse andrebbe introdotto nella considerazione su quanto successo, se non altro per comprenderne meglio gli aspetti di complessità, pur rendendomi perfettamente conto della scivolosità della questione. Qual è il confine tra i regimi mediatici della finzione e/o delle fantasie sessuali che albergano in ognuno di noi e ciò che facciamo davvero nella realtà che abitiamo quotidianamente? Se su youporn, che immagino sia un portale totalmente in regola da un punto di vista giuridico e vigilato dalle autorità di controllo competenti, esistono delle specifiche categorie in cui vengono messi in scena degli stupri o dei rapporti sessuali particolarmente violenti, perché la visione di quelle perversioni, comodamente accessibili a bambini di 10 anni, non ci indigna allo stesso modo di uno stupro reale? Non diffondono un modello morale altrettanto ripugnante? La persona che fruisce di un contenuto di finzione basato su uno stupro o su della pedopornografia con degli attori/attrici che sembrano bambini non dovrebbe essere considerata alla stregua del Genovese di turno?
No, si dirà. Quella è, appunto, finzione e le persone riprese sono consenzienti. Se una vuole farsi pestare a sangue perché la cosa la eccita, che male c’è? Ma come facciamo a sapere che lo stupro che stiamo vedendo è davvero finzionale, visto che i video di youporn comprendono anche, se non soprattutto, contribuiti di privati cittadini, spesso provenienti da parti disgraziate del mondo, che cedono i diritti di sfruttamento dei loro filmati domestici? E poi: chi è che firma quelle liberatorie? Lui? Lei? Entrambi? E i video diffusi vengono realizzati per semplice esibizionismo o anche per condizioni di necessità economica? E quante migliaia di uomini/donne che hanno realizzato e diffuso dei video porno amatoriali si sono poi drammaticamente pentiti di quello che, magari in un momento di debolezza o di euforia, hanno scelto di fare?
E allora, allo stesso modo, la ragazza maggiorenne che va a una festa notoriamente basata sull’uso di droghe e sul sesso estremo e che il giorno dopo si risveglia ammanettata ad un letto forse qualche minima responsabilità ce l’ha, così come non è esente da colpe la società civile che l’ha educata, se non altro da un punto di vista culturale.
Quello che possiamo volere da sobri potrebbe essere molto da diverso da ciò che potremmo desiderare strafatti di cocaina e eccitati dalla lascivia dell’ambiente in cui ci troviamo e avremmo dovuto probabilmente metterlo in preventivo. Immagino che la tesi difensiva di Genovese sarà che la ragazza abbia scelto liberamente di praticare la sua fantasia sessuale slave-master e che tutti i suoi ospiti fossero consapevoli di cosa succedeva alle sue feste. E in effetti: come si stabiliscono retrospettivamente i confini dell’intenzione e del consenso?
Come facciamo a sapere che quella violenza non facesse parte di una fantasia sessuale-messa in scena, almeno in parte concordata, per quanto uno possa dirsi cosciente di qualcosa in una condizione di totale alterazione psicofisica?
