
Nella variegata elaborazione critica degli universi audiovisivi esiste una questione particolarmente controversa che potremmo chiamare “dilemma dell’adattamento”. Trasporre in un altro medium un franchise videoludico considerato uno dei titoli per console migliori di sempre è tutt’altro che un’operazione esente da rischi. Non c’è nulla di più insidioso di una community di fan incalliti che ti aspettano al varco con un enorme carico di pregiudizi, persuasi che una clamorosa ingiustizia/banalizzazione/mistificazione stia per essere compiuta, anche considerati i tanti precedenti di pellicole a vario titolo derivate da videogame, per la maggior parte in effetti non proprio esaltanti (si considerino gli orridi Tekken (2009), Doom (2005) e, soprattutto, il capostipite Super Mario Bros (1993), davvero tra le cose più brutte di tutti gli anni Novanta).
Certo, si dirà, le serie televisive sono però altra cosa rispetto al cinema e tra la serialità e i videogame sono più evidenti i motivi di analogia. La fruizione non è continua e può protrarsi anche per diversi mesi, ogni puntata/sessione di gioco fa storia a sé pur all’interno di un quadro complessivo che si rivela soltanto in maniera graduale, non sono rari gli spostamenti di punto di vista e/o i cambiamenti di avatar/personaggi. Entrambi i linguaggi presentano inoltre una vocazione intrinsecamente transmediale (si può guardare/giocare la stessa serie/gioco su più supporti senza soluzione di continuità) e anche in un videogioco possiamo fermarci quando vogliamo, ricalibrare le nostre strategie, al limite anche morire, senza che la morte provvisoria dell’avatar comporti una conclusione definitiva della nostra esperienza ludica che, anzi, secondo la formula del trial and error, in genere comporta solamente una più consapevole acquisizione dei meccanismi cognitivi e delle strategie operative che presiedono al miglior funzionamento del gioco medesimo, così come in una serie televisiva serve almeno qualche puntata per ingranare ed entrare a pieno titolo nel mood e negli ingranaggi narrativi che la sostanziano.
Eppure, nonostante le similarità tra i due media, anche gli adattamenti televisivi di videogiochi sono stati quasi sempre operazioni fallimentari. Da Lara Croft fino a Mortal Kombat, le eccezioni sono pochissime e forse si salva soltanto il recente Cyberpunk: Edgerunners e poco altro. Come per la ben più cospicua storia degli adattamenti cinematografici da originali videoludici, anche il feeling tra serialità televisiva e videogame stenta decisamente a decollare.

Il videogioco The Last of Us da cui è tratta la serie prodotta da HBO
Tuttavia, malgrado i precedenti e i pregiudizi acuiti dal fatto che per molti critici stiamo parlando del videogioco più bello di tutti i tempi, in queste settimane tanti autorevoli commentatori hanno scritto che la serie evento prodotta da HBO sia la migliore trasposizione della storia. Ciò che rende The Last of Us – storia di sopravvivenza di Joel e Ellie in un mondo post-apocalittico di infetti, mutazioni e quarantene – un’operazione perfettamente riuscita è il talento di Craig Mazin, il pluripremiato autore di Chernobyl, ma soprattutto il coinvolgimento nell’ideazione e nelle stesure delle sceneggiature Neil Druckmann, autore del videogioco e teorico di una filosofia di scrittura rigorosamente character-driven, per la quale lo spessore esistenziale dei personaggi conta di più delle esigenze del plot e del gameplay.
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